La geologia del Valdarno

Cosa fa un geologo? Come lo si diventa? Cosa ci dice la geologia sul territorio in cui viviamo? Abbiamo posto queste domande al professore emerito Ernesto Abbate, del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Firenze.

Buongiorno Professore, e benvenuto a questa intervista. Dato che questo articolo finirà in un giornale degli studenti, volevamo sapere: come si fa a diventare geologo? Qual è il percorso di studi da seguire?

Innanzitutto, per diventare geologi bisogna frequentare un corso di laurea in Geologia; questo corso è composto da tre anni di una prima laurea breve, seguiti da due anni di specialistica. Le materie principali sono mineralogia, geochimica e geologia generale e stratigrafica, nonché geografia della terra.

Come funziona il lavoro del geologo?

Fare il geologo è un lavoro utile in diversi settori: può servire, ad esempio, come osservatore: il geologo può essere utile per valutare se la quantità di gas prodotta da una determinata zona è sufficiente per soddisfare il fabbisogno richiesto, come successo di recente nell’Adriatico: l’intervento dei geologi è stato importante per comprendere dati utili. I geologi possono essere utili anche al fine di trovare le zone più adatte per la ricerca petrolifera o mineraria. Un altro campo facente parte del lavoro del geologo è la Geologia Applicata, ovvero l’utilizzo di sistemi tecnologici per fare ricerche riguardanti, ad esempio, la stabilità di un versante. Oltre a questa parte applicativa, esiste anche una parte di ricerca che può riguardare le rocce magmatiche, dalle quali si può risalire a informazioni utili, come quando è nato un vulcano, la stabilità del terreno vulcanico, il rischio di eruzioni e così via, oppure la parte sismica, uno studio che può portare alla consapevolezza sul rischio di terremoti, su quali zone possono essere più soggette, e su come prevenire possibili catastrofi. Il lavoro del geologo è importante anche nei campi dell’archeologia e della paleontologia: può essere utile, ad esempio, nello studio delle situazioni in cui un determinato popolo si è trovato a vivere, come si è sviluppato, che ambienti ha utilizzato. In campo paleontologico si può scoprire com’è avvenuta l’evoluzione degli esseri viventi; in questi campi l’importanza del geologo consiste nello studio degli strati terrestri, grazie ai quali possiamo datare l’età a cui un reperto può risalire.

Passiamo alla sua carriera: dove ha lavorato?

Negli ultimi 20-30 anni ho lavorato soprattutto in Africa Orientale: Eritrea, Etiopia, Somalia e Madagascar, nell’ambito dello studio della conformazione del suolo, quindi dello studio dei vasti altopiani di quelle zone. Con le popolazioni locali ho insegnato a Mogadiscio per dieci anni: in quei luoghi ho studiato le varie regioni del Corno d’Africa, come la Dancalia, un bassopiano che si trova sotto all’altopiano etiope; purtroppo gli amici che ho conosciuto in quelle zone si trovano oggi in una situazione difficile: in quelle regioni sono in atto diverse guerre e mantenermi in contatto con loro non è facile.

Scorcio della regione Dancalica in Etiopia, dove il Professore ha lavorato per anni

Passiamo adesso alla geologia di una zona a noi vicina, che è il Valdarno: innanzitutto, come siamo riusciti a giungere alle conclusioni di cui lei ci parlerà, con quali strumenti?

Le informazioni riguardanti la geologia del Valdarno sono state inizialmente raccolte nel Medioevo, e noi, confrontando le mappe disegnate all’epoca con la situazione geologica attuale, possiamo ricavare delle conclusioni. Per quanto riguarda il terreno in sé, possiamo ottenere informazioni utili grazie all’esplorazione di quest’ultimo, ad esempio vedendo la sabbia delle balze. Dati utili per capire la conformazione del terreno sono in primo luogo i fossili, come quelli degli elefanti che un tempo abitavano le nostre zone, oppure lo studio della lignite a Santa Barbara. Inoltre, attraverso la geofisica, tramite l’utilizzo di strumenti come i magnetometri si può arrivare all’assetto delle geologie.

Cosa può dirci, dunque, sulla storia del Valdarno in breve?

3 milioni di anni fa il Valdarno era sostanzialmente una zona pianeggiante con piccoli bacini lacustri. Sulle sponde di questo lago cresceva una fitta vegetazione abitata da grandi mastodonti. Grazie ai ritrovamenti paleontologici di alcune piante è stato possibile capire il clima tipico di quegli anni: un clima caldo-umido. È in questi bacini lacustri che si sono depositate le argille che, insieme alle carcasse di alcuni animali, nel tempo, hanno contribuito a creare il grande giacimento di lignite di Santa Barbara. Il gruppo di queste argille viene chiamato gruppo di Castelnuovo dei Sabbioni.

Il Valdarno doveva ricordare il paesaggio delle Everglades, in Florida

Successivamente, circa 2 milioni di anni fa, il Pratomagno e il Chianti iniziarono a sollevarsi; questo ha prodotto delle sabbie sottili, più grossolane dell’argilla, che si sono depositate nel bacino costituendo quel gruppo di sedimenti che viene chiamato gruppo di Montevarchi. Le nuove condizioni ambientali (un clima più temperato) hanno favorito l’estinzione della fauna precedente e l’arrivo di animali tipici della foresta tropicale come elefanti, ippopotami, rinoceronti e scimmie.

Mezzo milione di anni fa, mentre il Pratomagno era nel periodo di massima attività, un altro gruppo, quello di Loro Ciuffenna, composto prevalentemente da ciottolame, si è depositato sopra quello precedente e il bacino è andato via via riempendosi. In questo periodo ci sono stati i primi apporti dal Casentino, ovvero dei ciottolami provenienti dal suddetto territorio che hanno raggiunto le nostre zone.

Come facciamo a sapere che questi sedimenti sono proprio originari del Casentino? Beh, perché queste rocce calcaree di età precedente si trovano diffusamente lì e non nel Valdarno, dunque deve essere per forza avvenuto un trasporto. Infatti l’Arno è riuscito a deviare il suo corso originario (dal Casentino verso sud) in direzione nord, passando adesso dal bacino del Valdarno, che con le sue argille è più facile da solcare.

Questo riempimento che si è accumulato negli anni, l’Arno, con il suo passaggio, se lo è “mangiato” tutto, creando questo affossamento che ritroviamo nel paesaggio moderno (prima tutto il Valdarno era in altitudine pari a Loro Ciuffenna).

Dove è finito ciò che l’Arno si è preso? Molti detriti si trovano all’altezza di Ponte Vecchio, a Firenze

Martina Bruschi e Andrea Marchetti